Videosorveglianza aziendale: com'è normata per preservare la privacy dei dipendenti

08 Gennaio 2024 - Redazione

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Videosorveglianza in azienda: tutto quello che c'è da sapere

L’articolo 41 della Costituzione disciplina la cosiddetta libertà di iniziativa economica privata, la quale deve essere esercitata nel pieno rispetto della libertà e della dignità umana.

In poche parole, il datore di lavoro è legittimato a dettare regole per l’esecuzione e la disciplina del lavoro, ed i lavoratori sono tenuti a rispettarle; nel nostro ordinamento giuridico, quindi, il datore di lavoro ha il potere di controllare che l’attività lavorativa posta in essere dai propri dipendenti sia eseguita nel pieno rispetto delle regole da lui imposte.

Tuttavia, ciò non significa che al datore venga concesso di trattare come meglio crede i lavoratori, magari spiandoli o chiedendo informazioni riservate sul proprio conto non concernenti la sfera lavorativa.

I poteri datoriali, infatti, devono fare i conti con i diritti dei lavoratori al rispetto della loro riservatezza, alla dignità personale e alla libertà di espressione e di comunicazione dei lavoratori. Con la modernizzazione delle tecniche lavorative e con lo sviluppo della tecnologia, il tema della privacy dei lavoratori è più attuale che mai, pertanto è stato necessario per il legislatore aggiornare le regole volte alla tutela dei lavoratori al fine di garantire il rispetto della loro riservatezza.

 

Cosa si intende con privacy dei dipendenti e quali sono i principi generali che puntano a tutelarla

La privacy in generale rientra nel novero dei diritti fondamentali dell’uomo nell’era dell’informazione. Più precisamente, essa è riconosciuta e tutelata da:

  1. La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo;
  2. L’International Convenant on Civili and Political Rights; 
  3. La Convenzione Europea Per la Protezione dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali

e trova uno specifico riconoscimento, a livello nazionale, anche nel Codice della Privacy (Decreto Legislativo n. 196 del 2003).

Per quanto concerne il significato di privacy invece, con tale termine si fa riferimento al diritto alla riservatezza delle informazioni personali, ovvero al diritto alla propria vita privata.

Ovviamente la privacy deve essere rispettata anche, e forse soprattutto, nel contesto lavorativo; non a caso, il tema è centrale anche nello Statuto dei lavoratori, tuttavia, occorre fare una disamina dei princìpi generali che il datore di lavoro deve rispettare in materia di tutela dei dati personali:

  • Principio di necessità: il controllo deve essere necessario ed indispensabile rispetto ad uno scopo ben determinato e deve avere il carattere dell’eccezionalità, nel tempo e nell’oggetto;
  • Principio di trasparenza: il datore di lavoro è tenuto a rendere edotti in modo anticipato i propri dipendenti sui limiti di utilizzo degli strumenti e delle sanzioni previste in caso di violazione dei suddetti limiti;
  • Principio di finalità: il controllo deve avere uno scopo ben preciso e deve garantire la sicurezza o la continuità aziendale o a prevenire gli illeciti che si potrebbero manifestare all’interno dei luoghi di lavoro;
  • Principio di sicurezza: i dati che il datore di lavoro raccoglie devono essere protetti in modo adeguato;
  • Principio di proporzionalità: il datore di lavoro è tenuto ad adottare forme di controllo proporzionate e non eccedenti rispetto allo scopo della verifica.
Videosorveglianza normativa dipendenti  

Cosa dice la legge in merito alla videosorveglianza aziendale

Spesso le aziende avvertono la necessità di installare telecamere di sorveglianza che inquadrino determinate zone della struttura per motivi di sicurezza; installare telecamere ed altri dispositivi di videosorveglianza infatti può essere un ottimo deterrente per prevenire violazioni, furti, intrusioni eccetera.

Tuttavia, installare videocamere nei luoghi di lavoro può avere anche altre finalità, come ad esempio controllare l’operato dei propri dipendenti, magari per valutarne la produttività.

In quest’ultimo caso è fondamentale rispettare ciò che dispone la legge; innanzitutto è bene sapere che il tema della sorveglianza dei lavoratori ha rilevanza anche a livello europeo, infatti, l’articolo 88 del Regolamento Europeo stabilisce una riserva di legge in favore degli stati membri, i quali possono varare norme atte a garantire i diritti e le libertà dei dipendenti nei luoghi di lavoro.  

Ciò premesso, in Italia esistono diverse norme che disciplinano la videosorveglianza aziendale come l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori (Legge 300 del 1970) il quale vieta espressamente l’uso di impianti audiovisivi e altre apparecchiature atte al controllo a distanza del personale dipendente.

Ancora, la normativa attualmente in vigore sulla privacy, ovvero il Decreto legislativo 196 del 2003, richiama in pieno la disciplina citata dall’articolo 4 sopra menzionato.

Alcune novità sono state introdotte dal Jobs Act, (D.lgs 151 del 2015) il quale ha stabilito un regime diverso a seconda del tipo di strumento utilizzato dal datore di lavoro; più precisamente, il legislatore ha distinto tra:

  1. "Strumenti" che consentono il controllo dei lavoratori, come appunto la videosorveglianza;
  2. "Strumenti di lavoro" come ad esempio pc, tablet, smartphone etc.

Lo sviluppo della tecnologia ha spinto il legislatore ad intervenire al fine di garantire una migliore tutela ai lavoratori, infatti, il divieto di monitoraggio dei dipendenti è stato esteso anche a chi lavora a distanza.

Se fino a prima dell’entrata in vigore del Jobs Act il monitoraggio dell’attività dei dipendenti era vietata, con la sua entrata in vigore le cose sono cambiate poiché è più semplice per i datori installare sistemi di videosorveglianza all’interno dei luoghi di lavoro.

È bene precisare però che la giurisprudenza ha immediatamente chiarito che quelle consentite, sono solo attività di controllo aventi finalità organizzative e di sicurezza, o di tutela del patrimonio dell’azienda, sicché per poter installare tali impianti, è necessario che ricorrano due condizioni:

  1. Esigenze di produzione ed organizzative, di sicurezza del lavoro e di tutela del patrimonio;
  2. Preventivo accordo sindacale oppure, in mancanza di questo, autorizzazioni amministrative concesse dinanzi alla Direzione territoriale del lavoro.

Tra l’altro, prima di arrivare alla situazione attuale, è doveroso sottolineare che una recente sentenza della Suprema Corte di cassazione aveva statuito che se tutti i lavoratori ripresi avessero dato il consenso all’installazione dell’impianto di videosorveglianza, non vi sarebbero stati altri vincoli per il datore di lavoro; tuttavia, la sentenza ha fatto subito discutere poiché è logico che il consenso espresso dai lavoratori potrebbe anche non essere libero e spontaneo, così come imposto dal Regolamento Generale Europeo.

Non è un mistero, infatti, che i lavoratori possono essere soggetti a pressione da parte del datore di lavoro.

Al fine di tutelare al meglio le parti deboli, i lavoratori appunto, il legislatore ha puntato quindi sull’accordo sindacale con le RSA (Rappresentanza Sindacale Aziendale) o RSU (Rappresentanza Sindacale Unitaria) o con le associazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale.

Come anticipato, un’alternativa all’accordo è l’autorizzazione concessa dall’Ispettorato del lavoro compilando l’apposito modulo, che tra l’altro è stato di recente semplificato al fine di snellire l’iter di richiesta e di autorizzazione.

Ove quest’ultima venisse concessa, il datore potrà procedere all’installazione ed attivazione degli impianti di videosorveglianza.

 

Per quali motivi installare delle videocamere sul luogo di lavoro

Come anticipato, i datori di lavoro non possono installare come e quando vogliono impianti di videosorveglianza, poichè la legge impone che per poterlo fare devono sussistere delle esigenze ben precise: di organizzazione e produzione; di sicurezza del patrimonio aziendale e di sicurezza del lavoro. Per esigenze di organizzazione e produzione si intende ad esempio la verifica del funzionamento dei macchinari o per l’ingresso dei clienti all’interno dei luoghi di lavoro. Le esigenze di sicurezza del patrimonio aziendale, invece, sono le classiche esigenze che ogni azienda ha ovvero evitare eventuali furti, rapine o intrusioni da parte di terzi o dagli stessi lavoratori presenti nelle aziende.

Infine, per quanto concerne la sicurezza del lavoro, il sistema di videosorveglianza può servire per provvedere ad un soccorso tempestivo oppure quando i lavoratori operano in zone isolate ed è necessario controllare se potrebbe o meno occorrere un intervento di soccorso. Ne deriva, dunque, che per poter essere legittimi, gli impianti di sicurezza devono giustificare una delle varie esigenze sopra citate.

 

Quando la videosorveglianza è vietata

Alla luce di quanto esaminato finora, la videosorveglianza nei luoghi di lavoro è vietata per meri fini di controllo dell’adempimento dell’attività lavorativa da parte dei dipendenti ed in tutti i casi in cui non sussista nemmeno una delle esigenze aziendali sopra descritte. 

Ciò significa che in questi casi non solo sarà possibile agire nei confronti del datore di lavoro che ha violato la legge, ma quest’ultimo non potrà nemmeno utilizzare i dati precedentemente raccolti in eventuali procedimenti disciplinari contro il lavoratore. 

Videosorveglianza sul posto di lavoro normativa  

Qual è la procedura da seguire per iniziare la videosorveglianza sui luoghi di lavoro

Il datore di lavoro che vuole installare nella propria azienda un impianto di videosorveglianza è tenuto ad effettuare numerosi adempimenti richiesti dall’attuale normativa di legge in vigore.

In primo luogo, il datore di lavoro (cosiddetto titolare del trattamento) è tenuto ad installare nei luoghi di lavoro degli appositi cartelli di informazione sintetica ed analitica in modo da rendere edotti tutti i soggetti che quel determinato luogo è sottoposto a videosorveglianza. Per la precisione, i cartelli devono contenere:

  • L’avvertimento dell’esistenza dell’impianto;
  • Le sue finalità;
  • Le informazioni relative al soggetto a cui fare eventualmente riferimento per esercitare i diritti di accesso riconosciuti dalla legge.

Per poter agevolare il titolare del trattamento, il Comitato Europeo per la Protezione dei dati personali ha varato un vero e proprio modello di informazione sintetica; si tratta di un documento decisamente più coinciso e puntuale rispetto al classico prestampato in plastica reperibile presso gli appositi esercizi commerciali. Oltre all’informazione sintetica è inoltre necessaria anche la cosiddetta informazione completa, composta da un foglio dove sono riportate tutte le informazioni sullo scopo e sull’esistenza dell’impianto.

In genere tale informazione deve essere affissa nel punto accoglienza del complesso commerciale o produttivo.

Ogni titolare del trattamento è inoltre tenuto a conservare un registro del trattamento, ai sensi dell’articolo 30 del Regolamento Generale Europeo; più precisamente però, tale registro risulta essere obbligatorio solo per i datori di lavoro con 250 dipendenti; in tale registro sono riportate tutte le principali tecniche ed operative delle attività di trattamento.

Nonostante tale norma si rivolga solamente alle imprese di grandi dimensioni, è fortemente raccomandabile l’uso di questo registro anche per le imprese di piccole e medie dimensioni.

In caso di ispezione dell’Autorità Garante, infatti, tale documentazione semplifica notevolmente le attività ispettive. Ai sensi degli artt. 24 e 35 del Regolamento citato, il titolare del trattamento è tenuto a compilare due particolari documenti: il primo, ex art. 25, deve avere questa denominazione “Protezione dei dati fin dalla progettazione e protezione per impostazione predefinita” ed in esso vengono descritti dettagli sulla sicurezza e la correttezza del trattamento.

Il secondo invece, ex art. 35, fa riferimento alla valutazione dell’impatto del trattamento ed è obbligatorio solo quando l’impianto possa effettivamente avere un impatto significativo nel tempo.

Si tratta, dunque, di sorveglianza sistematica su larga scala di una zona che è accessibile al pubblico, e negli altri casi indicati dal garante. 

 

Cosa succede in caso di videosorveglianza senza Accordo Sindacale o autorizzazione

Se il datore di lavoro installa un sistema di videosorveglianza senza aver preventivamente stipulato un accordo sindacale o senza aver avuto l’apposita autorizzazione,  si espone a conseguenze molto gravi.

Sul tema si è espressa la Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che l’installazione di una telecamera diretta verso il luogo di lavoro dei propri dipendenti o su spazi dove essi hanno, anche sporadicamente, accesso, deve essere previamente autorizzata dall’Ispettorato dal Lavoro o deve essere autorizzata da un particolare accordo con i sindacati. Pertanto, la mancanza di tali permessi comporta una responsabilità penale per il datore di lavoro.

A nulla vale l’eventuale consenso dei dipendenti, seppur informato, raccolto dal datore di lavoro, anche quando siano tutti i lavoratori a prestarlo. L’irrilevanza del consenso è stata di recente ribadito anche dalla Cassazione, la quale ha precisato che l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori tutela interessi di carattere collettivo e superindividuale e la sua violazione integra una condotta antisindacale.

 

Quali sono i limiti, le sanzioni e la prescrizione per l'utilizzo di materiale video

Dopo aver analizzato la natura della responsabilità a cui si espone il datore di lavoro che, installando un sistema di videosorveglianza, vìoli le norme fino ad ora esaminate, è necessario capire quali tipi di sanzioni possono essere materialmente irrogate e come può essere utilizzato il materiale raccolto.

In sintesi, le sanzioni irrogabili sono l’ammenda che va da euro 154,00 a 1.549, l’arresto da 15 giorni fino ad un anno, salvo che il fatto non costituisca reato più grave.

A seconda dei casi, l’ispettore potrebbe anche eventualmente valutare se applicare entrambe le sanzioni. Inoltre, l’ispettore che verifica l’installazione degli impianti audiovisivi senza le previste autorizzazioni, può impartire la prescrizione di cui all’art. 20 del D.lgs. 758 del 1994 al fine di far cessare la condotta illecita e per far rimuovere il più velocemente possibile gli impianti installati al fine di annullare la contravvenzione accertata.

In ogni caso, il verbale ispettivo fissa un termine perentorio per la rimozione degli impianti illegittimi. Per quanto concerne la violazione delle norme racchiuse nel Codice della privacy, invece:

  • Omessa informativa: punita con sanzione pecuniaria che va da euro 6.000, 00 fino a 36.000,00;
  • Omessa adozione delle misure minime di sicurezza per la protezione dati: punita con sanzione pecuniaria pari da euro 10.000,00 fino a 120.000,00 ed integra altresì un reato punito con pena detentiva fino a due anni;
  • Mancato rispetto dei tempi di conservazione delle immagini raccolte/cancellazione: è prevista una sanzione pari ad euro 30.000,00 fino a 180.000,00;
  • Mancata o inesatta notificazione ex art. 37 e 38 Codice della privacy: sanzione pecuniaria da 6.000, 00 fino a 36.000,00;

Infine, come sopra anticipato, quando il datore di lavoro decide di installare un impianto di videosorveglianza senza osservare ciò che è disposto dalla legge, non può in nessun modo utilizzare le immagini che ha raccolto contro i propri dipendenti. 

Ciò significa, ad esempio, che se il datore di lavoro dovesse rendersi conto che un proprio dipendente non adempie correttamente alle proprie mansioni e decidesse di intraprendere un procedimento disciplinare nei suoi confronti, non potrebbe avvalersi dei dati raccolti, come un video che ritrae il dipendente mentre non adempie ai suoi doveri.

Archiviazione materiale videosorveglianza  

Quanto le immagini eventualmente autorizzate possono restare archiviate

All’impianto di videosorveglianza deve essere impostata una durata di archiviazione. In poche parole, l’impianto deve essere programmato in modo da cancellare in modo automatico le immagini registrate.

Quest’aspetto è fondamentale poiché spesso il titolare del trattamento dei dati potrebbe dimenticare di effettuare la cancellazione, commettendo così un illecito. Per quanto riguarda la durata massima della conservazione dei dati raccolti, la regola è che essa deve essere la minima compatibile con le finalità della raccolta dei dati.

Un esempio potrebbe rendere più agevole la comprensione di quest’aspetto tutt’altro che secondario: pensiamo ad esempio ad un impianto di videosorveglianza installato in un locale che normalmente è chiuso di domenica e di lunedì, come tra l'altro spesso accade; un’eventuale anomalia che dovesse verificarsi di sabato non può essere rilevata prima della riapertura dell’attività, pertanto i due giorni della durata della conservazione dei dati sono pienamente legittimi.

Ovviamente i termini di conservazione delle immagini variano da attività ad attività, si pensi ad esempio alle videocamere presenti in una banca, in questo caso le finalità dell’impianto sono la prevenzione dalle rapine e fornire una documentazione dell’attività criminosa eventualmente posta in essere. È evidente che la durata della conservazione, fissata in 24 ore, è più che sufficiente ed è pienamente in linea con le esigenze dell’attività. 

 

Cosa fare e a chi rivolgersi per utilizzo improprio e non autorizzato di dati personali e materiale video non autorizzato

Il Regolamento europeo per la protezione dei dati personali (GDPR), ma non solo, prevede una pluralità di strumenti finalizzati a tutelare l’interessato in caso di trattamento illecito dei dati.

Tra di essi, uno dei più conosciuti è sicuramente il reclamo all’autorità di controllo con il quale si denuncia la violazione della normativa vigente in materia di protezione dei dati personali al Garante.

In ogni caso, il miglior modo per tutelarsi in caso di utilizzo dati improprio e non autorizzato dei dati personali o di materiale video è rivolgersi ad un avvocato del lavoro specializzato in materia di privacy.

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